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LA TURCHIA E L'EUROPA
Analisi
di Barbara Spinelli (19.12.2004)
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Anche se l’allargamento dell'Unione europea alla
Turchia avverrà fra 10-15 anni, come prospettato
venerdì a Bruxelles, è fin da ora che l'Europa dovrà
prepararsi a quello che probabilmente diverrà il suo
nuovo volto, la sua nuova ragion d'essere, a meno di
fallimento del negoziato. È un volto che muterà noi
e il popolo turco in tre modi.
Primo, l'allargamento potrebbe spezzare le tante
paure che ci paralizzano, e invogliarci a divenire
finalmente una potenza globale. Secondo, l'adesione
potrebbe condurre Ankara, come è avvenuto in
Germania dopo il '45, a riconoscere che crimini come
il genocidio (degli ebrei nel caso tedesco, degli
armeni in quello turco) sono precisamente la ragione
per cui nel dopoguerra nacque un'Unione fondata
sulla rinuncia a sovranità nazionali inviolabili.
Terzo: la difesa dello stato di diritto e
l'equilibrio dei poteri democratici sono qualcosa
che l'Unione dovrà chiedere a Ankara ma anche a se
stessa, nel momento in cui le democrazie sono prese
d'assalto dal terrorismo.
L'Europa potenza, in primo luogo. L'Unione
non cesserà d'essere Europa, perché la storia turca
è connessa a quella del vecchio continente, ma
incorporerà una porzione consistente dell'Asia,
visto che la più gran parte del territorio turco si
colloca nell'altra metà del pianeta. Avrà frontiere
non solo nuove ma difficili, non collaudate, perché
un'Unione che inglobi la Turchia confinerà con il
Caucaso del Sud (Armenia, Georgia, Azerbaigian) e
con Siria, Iran e Iraq. Tutte queste zone turbolente
diverranno il nostro diretto vicinato, e non è male
che sia così, a meno di non voler restare un'Unione
dipendente, inerte. La nuova Unione dovrà per forza
di cose occuparsi in proprio delle mutate frontiere,
stabilire rapporti che non sfocino ineluttabilmente
nell'adesione, senza più delegare diplomazia e
sicurezza ad alleati tendenzialmente egemoni come
gli Stati Uniti. In fondo, già oggi bisogna pensare
l'Europa come potenza mondiale, alleata dell'America
ma per molti versi autonoma da essa: una potenza che
continuerà a chiamarsi Europa ma che di fatto,
incorporando zone cospicue del proprio Oriente,
potrebbe esser ridenominata, dagli esperti in
geopolitica, Eurasia.
Siccome non sono tuttavia questi esperti a
determinare il futuro dell'Unione, è la vecchia
Europa che dovrà decidere cosa vuol salvaguardare
della propria identità e che tipo di potenza vuol
divenire, a partire dal giorno in cui si trasformerà
geograficamente in Eurasia. Da questo punto di vista
il lungo negoziato con Ankara costituirà una prova
formidabile per i turchi ma soprattutto per noi. Non
solo loro dovranno dimostrare di esser democratici,
rispettosi dei valori europei di convivenza civile,
desiderosi di delegare a istanze sovrannazionali la
sovranità nominalmente assoluta del vecchio Stato
nazione. Anche gli europei, man mano che
negozieranno, saranno spinti a riflettere su quel
che vogliono divenire entro 10 anni, e a costruire
quelle istituzioni forti che consentiranno di
digerire l'ingresso d'una grande nazione come la
Turchia, e di proporsi al mondo come potenza che
amministra confini e vicinati nuovi. Ratificata o
no, la Costituzione firmata a Roma non sarà
sufficiente, perché l'Unione non può assolutamente
permettersi di inglobare un Paese che mantenga, in
questioni diplomatiche e militari essenziali, il
diritto di veto ancora a disposizione degli Stati.
Dovranno anche domandarsi come mai stanno divenendo
un punto di riferimento esemplare, per Turchia come
per Ucraina, per Moldavia come per Georgia e Nord
Africa, nel momento in cui l'antiamericanismo
s'aggrava e s'estende nel pianeta.
Da un numero sempre maggiore di Paesi, infatti,
l'Europa è vista oggi come un'alternativa agli Stati
Uniti. Proprio le trattative con Ankara sull'avvio
dei colloqui, e i negoziati d'adesione con gli
europei ex comunisti, hanno accentuato tale
preferenza: in Turchia come in Ucraina, le forze
filoeuropee vedono oggi nell'Unione un modello
d'estensione della democrazia non solo più pacifico,
ma più efficace del modello Usa. Non è escluso che
con l'andare del tempo anche Mosca prediliga simile
modo d'esercitare influenza globale (fondato sull'Europa-potenza
civile più che militare o, come è stato detto,
sull'Europa forza gentile) e cerchi forme
d'associazione con essa, una volta che s'accorgerà
dello scempio causato in Cecenia dai propri
dirigenti e del fallimento dell'investimento su
un'Ucraina satellite, corrotta e dispotica.
Secondo, l'Unione come metodo per assorbire
le tragedie storiche nate da una sovranità nazionale
esercitata in maniera assoluta. Anche in questo caso
il negoziato euro-turco costituirà un test cruciale
- ben più delle trattative per l'adesione di dieci
piccoli Stati. Eurasia, infatti, non significa
annacquamento dei valori molto particolari su cui è
edificata l'unificazione europea a seguito delle due
liberazioni del '900: liberazione dai totalitarismi
nazi-fascisti dopo il '45, liberazione dal
totalitarismo comunista nell'89. L'ingresso della
Turchia significa adesione a un preciso modo di
ricordare il passato e assorbirlo, e ai valori
specifici che hanno permesso a tale memoria, non
ingabbiante ma vigile, di radicarsi.
In questo l'Europa non somiglia alla Nato, e non
solo perché è un'unione anziché un'alleanza. Quando
si costituì, la Nato passò la spugna sui passati
nazionali, perché lottare contro il nemico rosso
pareva più importante. Non così l'Europa unita, che
non è patto d'oblio ma memoria tenuta in vita dei
crimini commessi dai vecchi Stati nazione. Che è
memoria condivisa e sormontata grazie al drastico
ridimensionamento delle sovranità statali e al
prevalere del diritto internazionale sui diritti dei
singoli Stati.
Questo vuol dire che la Turchia, per entrare, non
potrà fare a meno di riconoscere il crimine contro
l'umanità che è stato, nel 1915, il genocidio
programmato degli armeni cristiani. Non è una
condizione astrusa avanzata da Chirac e dalla
diaspora armena (circa 6 milioni, di cui più di
350.000 in Francia) ed è un vero peccato che la
commissione Prodi, nelle raccomandazioni del 6
ottobre, abbia omesso la parola genocidio,
accennando, ambiguamente, alle «sofferenze umane»
patite dagli armeni nel '15-'16. Il riconoscimento
di quel crimine è una condizione che interessa tutti
gli europei, e che sarà vitale per la definizione
stessa che noi diamo della nostra forma di
democrazia. Esso mette in luce un elemento
sostanziale: non sono in realtà le diversità
religiose e neppure l'imperfetta laicità, a
rappresentare oggi l'ostacolo preminente.
Il principale nodo turco riguarda un evento - il
genocidio degli armeni, appunto - che non è
imputabile né all'Islam né all'impero ottomano ma a
un regime - quello dei Giovani Turchi che
prese il potere nel 1908 e fu poi soppiantato
dall'ala nazionalista del movimento, nel '13 - che
coscientemente volle rompere col passato imperiale e
puntare su valori progressisti e moderni appresi in
Europa: la laicità ideologicamente vissuta e
antireligiosa, il nazionalismo espansivo,
l'identificazione ottocentesca fra cultura, lingua,
razza, nazione, Stato.
In altre parole, non solo i turchi ma anche l'Unione
saranno indotti prima o poi a riconoscere cose
indispensabili per il divenire europeo di Ankara e
per il radicamento della democrazia in Eurasia: il
genocidio del 1915, l'equivoca natura di una laicità
che ha sovrapposto lo Stato sull'Islam ma ha anche
represso religioni (compresi i dissidenti musulmani)
e il fatto che il crimine supremo dello Stato turco
sia avvenuto nel momento più europeo della
sua storia. Non si possono applicare, alla Turchia,
criteri diversi da quelli applicati alla Germania.
Non si può accettare che la Turchia onori ancora i
responsabili del genocidio e difenda posizioni
negazioniste, quando questi atteggiamenti sono
vietati ai tedeschi. Continuare a negare il
genocidio degli armeni significa dare, a Hitler, una
vittoria postuma. Fu proprio lui a dire nell'agosto
'39, quando fu ammonito contro l'invasione della
Polonia e lo sterminio di popoli: «Chi si ricorda
più del massacro degli armeni?».
Terzo: la difesa dello stato di diritto nonostante i
vincoli dell'antiterrorismo. La questione dello
sterminio armeno (attuato dal regime turco contro
l'avversario russo) non è disgiunta dall'idea che
l'Unione europea si fa delle minacce cui deve far
fronte, e dalla volontà o meno di dare preminenza a
tutto quel che può salvaguardare le istituzioni base
dello Stato liberale. Ai turchi, ma anche a noi
stessi e fin d'ora, l'Europa che ambisce a divenire
potenza dovrà ricordare che nessuna lotta a nemici
esterni può giustificare il sacrificio di valori
fondamentali come lo stato di diritto, il rispetto
delle minoranze etniche e politiche, la separazione
dei poteri dello Stato e della politica dalla
religione, il principio dell'habeas corpus («il tuo
corpo t'appartiene», principio medievale
formalizzato in Inghilterra nel 1679, in base a cui
il sospetto va portato davanti alla corte per un
giusto processo). Un principio che noi stessi
violiamo, di questi tempi, nello stesso attimo in
cui imponiamo a Ankara l'approvazione di nostri
costumi e leggi.
Con la Turchia ci uniamo per difendere la democrazia
che noi stessi rischiamo di minacciare
esistenzialmente, come a Guantanamo, a seguito di
strategie contro terroristi cui non andrebbe
attribuito l'immenso potere di distruggere civiltà.
In questo senso s'è pronunciata l'Alta Corte dei
Lord in Inghilterra, denunciando le leggi
antiterrorismo varate da Blair dopo l'11 settembre.
Ha detto un rappresentante della Corte, Leonard
Hoffman: «La minaccia vera all'esistenza della
nazione, se per nazione s'intende un popolo che vive
in conformità con le sue leggi tradizionali e i suoi
valori politici, non viene dal terrorismo ma da
leggi come queste» (il corsivo è nostro).
Nell'ora in cui apriamo alla Turchia dobbiamo
saperlo: quel che chiediamo loro - il rifiuto di
diventar dei mostri nel combattere i nemici, l'habeas
corpus, il rispetto delle minoranze - non
riguarda solo la Turchia e la sua religione
dominante, ma anche le nazioni europee con radici
cristiane. Ambedue devono ricordare che l'inferno è
quasi sempre partito da casa nostra. È questa
consapevolezza, ed è l'autolimitazione di sovranità
risultante da tale consapevolezza, che rendono oggi
l'Europa tanto più attraente, elastica, affidabile
degli Stati Uniti. È questa sua volontà di
integrare, della millenaria storia turca, il destino
di Troia rasa al suolo da Agamennone e il destino
degli armeni turchi. La Turchia salverà se stessa,
se riconoscerà questa duplice eredità di vittima e
di boia, di figlia dell'Iliade e di iniziatrice dei
genocidi novecenteschi. Ma anche l'Europa salverà se
stessa, perché nell'estendersi a Ankara non avrà
rinunciato al patto di memoria viva che fondò fin da
principio il suo nascere.
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