Esserci
nonostante le difficoltà, senza alcun progetto
politico o sociale, semplicemente per testimoniare
una presenza. I cristiani della Turchia sanno che la
fede sa esprimersi anche nel silenzio e
nell’essenzialità: la consapevolezza che traspare
nella vita di don Andrea Santoro, ma anche in tante
altre storie come quella di padre Claudio e dei suoi
libri o dei cristiani della Caritas turca, capaci di
dialogare attraverso gesti di solidarietà. Un mondo
raccontato dal vaticanista e caporedattore degli
esteri del Tg3, Aldo Maria Valli, in “La porta
accanto”, libro edito dalla Paoline dedicato alle
sensazioni, le storie e gli incontri di un viaggio
in Turchia realizzato nell’estate del 2006 insieme
alle Acli. “Non ho voluto scrivere un saggio -
spiega Valli a Korazym.org – ma un diario che
potesse dare voce alla realtà dei cristiani,
attraverso la vita delle persone”.
Quale quadro emerge?
“Senza dubbio una realtà difficile. Non si
può parlare di persecuzione, però il fatto che le
confessioni cristiane continuino a non avere
riconoscimento giuridico complica molto le cose. I
cristiani poi sono pochissimi e, come mi diceva un
padre domenicano che ho conosciuto, Claudio Monge,
‘sono anche ben divisi’. In Turchia, convivono
infatti molte confessioni con poche migliaia di
fedeli. Nel contesto attuale, la loro è quasi una
scelta da eroi".
Due religiose partecipano alla messa di
Benedetto XVI ad Efeso (29 novembre 2006)
È cambiato qualcosa dopo il viaggio di
Benedetto XVI?
“Il processo di cambiamento sarà lungo. Di certo, la
visita ha portato buoni frutti nel rapporto con
l’Islam, anche sul piano dell’immagine. La preghiera
del papa nella Moschea Blu ha colpito molto
l’opinione pubblica e ha favorito una sorta di
disgelo, almeno sul piano umano. Per quanto riguarda
la situazione dei cristiani, tuttavia, è ancora
presto parlare di vantaggi concreti. Il seme è stato
gettato e qualcosa nascerà. Certo, le difficoltà
continuano ad essere enormi, anche perché senza un
riconoscimento non può esserci nemmeno un dialogo
istituzionale”.
Nel suo viaggio, ha incontrato molti
cristiani. Ci sono testimonianze o aneddoti
particolari?
“Sono tanti. Penso all’incontro con lo
stesso padre Claudio Monge, uno dei quattro
domenicani del convento di Galata a Istanbul, luogo
di fede antichissimo, risalente al V secolo. La
struttura è grandissima e difficile da mantenere.
Visitandola, colpisce che tutti gli spazi prima
occupati dai religiosi, siano stati adibiti a
biblioteca, con decine di migliaia di volumi di
libri di filosofa e teologia cristiana. Quando ho
chiesto a cosa servissero, padre Claudio mi ha dato
una risposta eloquente: “Il loro posto è qui, nella
seconda culla del cristianesimo, la terra della
prima predicazione di San Paolo”. Anche da questo
aneddoto si capisce come la volontà dei cristiani
non sia quella di fare proseliti, ma semplicemente
tenere viva una fiamma. Non a caso, padre Claudio
non ama essere definito un missionario”.
Ne “La porta accanto”, lei parla anche
dell’esperienza originale della Caritas…
“Sì. All’inizio non sapevo nemmeno che esistesse. La
Caritas è formata da non più di 30 persone e
coinvolge cristiani di tutte le confessioni. Di
recente, è stata impegnata nei soccorsi del
terremoto del 2003, e ha avuto numerosi contatti con
il mondo musulmano. Un esempio di ecumenismo e di
dialogo dal basso, attraverso la solidarietà: vicino
ai bisognosi ci si conosce e ci si riconosce”.
L'incontro di Benedetto XVI e Bartolomeo I a
Istanbul (30 novembre 2006)
Tra i tanti cristiani incontrati, ce ne è
anche uno famoso, il patriarca ecumenico Bartolomeo
I. Che effetto le ha fatto?
“È stato un incontro molto significativo. Bartolomeo
è una personalità per certi aspetti ieratica, ma nei
tratti umani è amabile. In lui ho visto l’approccio
all’ecumenismo dell’uomo di fede. Quando ci ha
ricevuto, ha parlato della sua amicizia con Giovanni
Paolo II (tra l’altro, ha testimoniato nel processo
di beatificazione) ma anche della grande nostalgia
dell’unità con i cattolici. È un uomo di preghiera
che crede nel dialogo, anche in una situazione
difficoltà. Uno stile che vive in prima persona,
dato che la comunità greco ortodossa è piccolissima
e soggetta a molte restrizioni. In questo senso è
stato importante l’appoggio del papa, anche in
termini politici”.
Nazionalismo e identità religiosa,
tradizione e apertura all’Occidente. In Turchia,
sembra che vivano tanti paesi diversi. Quanti ne ha
visti?
“Molti e tutti sorprendenti. La Turchia è davvero un
Paese complesso e dalle mille facce. Vedi l’Islam
tradizionale, ma anche l’Islam mistico delle
confraternite; la voglia di normalità rappresentata
dalle parabole e dai pannelli solari e al tempo
stesso la difesa delle radici e delle tradizioni. È
una nazione che attraversa un momento di passaggio,
non privo di tensioni, come dimostra l’uccisione del
giornalista Hrant Dink. Sul versante religioso, è
importante però chiarire che oggi il problema non è
l’Islam ma il nazionalismo che usa la religione in
modo strumentale. Credo che ci voglia molta umiltà e
disponibilità a conoscere a fondo la realtà turca”.
Don Andrea Santoro celebra Messa sul Mar Nero.
Alle sue spalle, la città di Trabzon (Foto Gabriella
Nocita)
Impresa non sempre facile. Lo stesso
omicidio di don Andrea Santoro è stato ridotto in
molti casi ad un episodio di scontro religioso,
dimenticando che il sacerdote era impegnato anche
nella lotta alla tratta di essere umani. Politica,
criminalità, nazionalismo: forse è sconveniente
considerare tutti gli aspetti in gioco?
“Più che sconveniente, direi scomodo, specie per un
giornalismo come il nostro che ruota in gran parte
intorno al desk e alle agenzie di stampa. Non siamo
abituati a scavare e andare a fondo; eppure sant’Agostino
ricordava che il “mondo è come un viaggio e chi non
viaggia ne conosce solo una pagina”. Una prospettiva
che si adatta bene anche alla vicenda di don
Santoro”.
In che modo?
“Nella sua storia si sono intrecciati molti
elementi: era sì un cristiano, ma anche un elemento
di rottura di un equilibrio e di interessi pesanti.
Mi ricorda molto quanto fece San Paolo ad Efeso,
mettendo in discussione il culto di Artemide e di
conseguenza, gli interessi degli argentieri che su
quello lucravano. Per questi motivi, dobbiamo andare
dentro la complessità, facendola emergere. Nello
specifico, in un momento in cui si parla di scontro
civiltà, è necessario dire che il problema non è la
religione ma la sua strumentalizzazione politica.
Rifacendomi al titolo del libro, la porta accanto
non deve essere chiusa, magari per superficialità:
si deve avere piuttosto il coraggio di metterci la
testa dentro".