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VIENI, CHIUNQUE TU SIA
Situata ai margini dell'Europa, la Turchia oggi non è piu
il paese del "Grano Turco", il sovrano dell'Impero
Ottomano che tanto ossessionava i'immaginario
dell'Occidente, ma una terra accogliente, di antiche
civiltà che si possono scoprire a sole due o tre ore di
volo dalle capitali europee... |
Origine turca per gli antichi
Etruschi
:
L'origine 'misteriosa' degli Etruschi sembra
destinata ad essere ben presto svelata, grazie
all'aiuto della genetica.
Fuga di Mezza Notte è
un Bluff:
L’uomo che ispirò il film:
«Chiedo scusa alla Turchia»
Né stupri né
torture in carcere
«Fuga di mezzanotte? Un bluff»
LA
TURCHIA E L'EUROPA
La nuova potenza Eurasia -
La Stampa - Analisi di Barbara Spinelli
Cristiani in Turchia
Appunti
di viaggio di Franco Costa
Cristiani in Turchia
Aldo Maria Valli: il significato di una presenza
di
Matteo Spicuglia
Antiochia e Dintorni...
Un pò di storia...
Missione Caprini:
il
contributo dell'arma dei carabinieri per il
riordino della gendarmeria ottomana.
Dal
1° gennaio 2009 al via le prime trasmissioni in
curdo in Turchia
La sfida delle donne turche. Tra il diavolo e le leggi
L'Anatolia (la parola, di origine greca, significa
"all'est") fu in effetti un luogo di passaggio dove videro
la luce le più antiche civiltà del bacino del
Mediterraneo.
Prima dell'arrivo dei turchi, vi si insediarono altri
popoli come gli hittiti, i frigi, i romani e i bizantini,
diretti ora verso la steppa, ora verso quel mare "colore
del vino", come lo definiva Omero. Quanto ai turchi,
ultimi abitanti dell'Anatolia, dopo una lunghissima marcia
dai confini della Cina al Mediterraneo orientale, essi
arrivarono su questo altopiano secco e freddo d'inverno,
ma circondato di regioni subtropicali dal clima tiepido,
verdeggianti e ricche d'acqua.
Questo paese, che assomiglia
alla testa di una giumenta
venuta al galoppo dall'Asia lontana
per immergersi nel Mediterraneo,
questo paese è il nostro.
Cosi cantava Nazim Hikmet, grande poeta turco (Salonicco
1902 - Mosca 1963) che doveva morire in esilio, lontano
dai suoi e dalla sua lingua. Questo paese è "il nostro",
ma non perché l'abbiamo conquistato con qualche migliaio
di cavalieri venuti dall'Asia centrale. In questa vicenda
storica noi siamo stati nello stesso tempo conquistatori e
conquistati, perché la terra d'Anatolia ci ha plasmato
così come noi l'abbiamo a nostra volta plasmata. E i
cavalieri turchi che attraversarono il Danubio non erano
necessariamente "nostri antenati".
Ma Turchia non è solo storia di popoli scomparsi, né culla
di antiche civiltà. Certo, essa abbaglia il turista con la
ricchezza del suo passato storico e la bellezza dei suoi
paesaggi. Ma essa è anche una lingua, il turco, che fu il
solo elemento di continuità durante la lunga marcia in cui
i turchi adottarono successivamente credenze sciamaniche,
manichee, buddiste, nestoriane, poi musulmane (di credo
sunnita) e scelsero di scrivere in caratteri runici,
sogdiani, arabi e infine - dopo il 1928 - latini. Questa lingua detta "agglutinante", che appartiene
alla famiglia delle lingue altaiche, si caratterizza per
l'armonia vocalica e per una morfologia basata
sull'aggiunta di suffissi.
La lingua turca è la mia vera patria, poiché, nonostante io
abiti a Parigi ormai da vent'anni, è in turco che scrivo i
miei romanzi. Di fatto, uno scrittore non abita né un
paese né una città, ma una lingua. Il turco è il mio
scantinato dove io mi trovo nella scrittura come il
nocciolo sta dentro il frutto. E quando io scrivo in
questo scantinato alla luce della mia lampada, è
attraverso le parole della mia lingua materna che la
Turchia spunta come un miraggio nel deserto.
Il mio paese: prima di tutto Istanbul, che si chiamava
anche Lygos, Bisanzio, Costantinopoli, la Nuova-Roma, la
Porta della Felicita, la Casa del Califfato, la Sublime
Porta,"vedova ancora vergine dopo mille sposalizi" secondo
un poeta turco incollerito, città per eccellenza che non
ho mai smesso di cantare nei miei libri. Curiosamente è a
Parigi, al risveglio da un sogno, alla luce della mia
lampada che ci abbatteva sui fogli bianchi, oppure
altrove, durante i miei interminabili viaggi attraverso il
mondo, che ho spesso ritrovato Istanbul. Non si trattava
di un lancinante ricordo che aleggiava nell'aria, né di un
rimorso piantato come un ferro rosseggiante nel mio cuore,
ma di una città reale dove io avevo "rovinato la mia
vita", come diceva Kavafis, il poeta alessandrino
originario di Istanbul:
Nuovi luoghi
non ne troverai affatto
né altri mari,
La città ti seguirà.
E la città mi segue. Adesso che ho di nuovo la possibilità
di andare a sfiorare i suoi tre mari e i mulinelli del
Corno d'Oro, di accarezzare le sue torri, le sue cupole, i
suoi minareti, di sfregare il mio viso sui suoi bastioni,
sui muri anneriti, di abbracciare le due rive del Bosforo
che hanno forma di labbra socchiuse, di inerpicarmi sulle
sue colline e i suoi tornoni, di riposarmi infine
all’ombra dei suoi platani dopo tutte queste follie
amorose, adesso che posso possederla e penetrarla di nuovo
dopo una cosi lunga assenza, che cosa posso dire di lei se
non raccontare il mio desiderio inappagato di questa
"vedova ancora vergine dopo mille sposalizi"?
Prima di scrivere il mio ultimo libro, Il romanzo del
conquistatore (che sta per essere pubblicato in
Italia) non avevo la minima idea delle peripezie relative
alla caduta di Costantinopoli, né degli innumerevoli
combattimenti che si dovettero ingaggiare perché la città
si arrendesse. Ignoravo che all'inizio dell'assedio il
terribile cannone fatto fondere da Orban era scato
trascinato a fatica da cinquanta coppie di buoi e da
quattrocento artiglieri fino alla porta di Kaligaria, e
che era scoppiato volatilizzando coloro che si trovavano
attorno, dopo che molti suoi tiri avevano aperto profonde
brecce nelle mura. Tantomeno avevo avuto sentore delle
disperate notti di Maometto II (Mehmet II) che noi
chiamiamo "il Conquistatore", dei suoi incubi - sì, degli
incubi! -, della tenacia con cui Zaganos Pascià aveva
consentito il prolungarsi dell'assedio, del diluvio di
frecce, palle di cannone, pietre, che s'abbatteva
sull'armata ottomana, dei cadaveri dei giannizzeri
ammucchiati nei fossati ai piedi dei bastioni.
Come avrei voluto avere conoscenza dell'enorme catena
pesante tonnellate che gli assediati, all'altezza di
Galata, avevano teso tra le due rive del Corno d'Oro per
respingere la flotta ottomana, del sostegno portato a
Bisanzio dai genovesi e dai veneziani, del misterioso
fuoco greco che incendiava persino le onde! Solo parecchi
anni dopo, lontano da Istanbul e dalla mia solitudine
musulmana nel collegio del liceo di Galatasaray, ho potuto
infine impadronirmi della storia della mia città, grazie
ai libri che ho divorato nella biblioteca della Sorbona, e
sono stato in grado così di scrivere questo romanzo.
Il mio paese: il blu del mare, la distesa della steppa
anatolica, i paesaggi lunari della regione del lago di
Van, gli uomini preistorici e i camini delle fate in
Cappadocia, gli arcangeli sul punto di spiccare il volo
dai muri di Santa Sofia. Chiese e moschee, templi e
cupole, campanili e minareti, ma anche il sole hittita che
continua a brillare nel cielo di Ankara, la città
preferita da Mustafa Kemal Ataturk che ne fece una moderna
e dinamica capitale.
La Turchia: case dai tetti di paglia e argilla, bambini che
giocano con gli aquiloni su un'aia per la battitura, il
viso triste di una donna che prende l'acqua a un pozzo,
campi di cotone e di papavero che sfilano attraverso il
finestrino di un treno. Officine, luoghi di reclutamento
per contadini a giornata, camion, carretti, asini sfiniti
e malati, pioppi, trattori addobbati come degli sposi, il
suolo screpolato, un albero isolato nella pianura, delle
canzoni. Soprattutto canzoni d'esilio:
Solo da Dio la morte è decretata
Ah! Se noi non fossimo stati seperati!
Se più di due milioni di turchi vivono oggi all'estero, ne
restano ancora sessanta milioni per accogliervi con le
braccia aperte, con questi versi di Gialal ad-Dìn....
Rumi, grande poeta mistico e fondatore della setta del
dervisci danzanti:
Vieni, chiunque tu sia, vieni
Che tu sia infedele o pagano vieni
Il nostro convento non è la dimora dei disperati
Vieni, anche se tu ti sei pentito cento Volte.
Mevlana Celaleddin-i Rumi (padre dei dervisci danzanti)
Nedim Yılmaz
(Autore turco)
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